GARANTIRE NON PROMETTERE
Condivido, appoggio, firmo e sottoscrivo questa lettera alle istituzioni insieme a Grazia Biondi e all' Associazione Manden, che vi prego di leggere fino in fondo anche se molto lunga.
Delle donne si deve parlare sempre, non solo la giornata mondiale della violenza contro le donne oppure l'8 marzo.
Dei percorsi che le donne, quasi sempre sole, fanno all'interno di procedimenti giudiziari e non, senza nessun appoggio da parte delle istituzioni, si deve sapere.
Si deve conoscere e gridare l'indifferenza istituzionale e l'incompetenza degli addetti ai lavori che finiscono con il procurare, a causa di negligenze e mancanza di preparazione, aggravi e maltrattamenti continuativi in situazioni che già vengono denunciate di partenza.
Il calvario che le donne devono affrontare e il loro racconto non è vittimismo. Fossimo vittime e basta non saremmo qui a denunciare e neanche a impegnarci tutte nel portare avanti comunque le nostre vite spesso a tutela dei nostri figli e con dignità, nonostante le innumerevoli difficoltà.
Tuttavia è tempo che risuoni la nostra voce in modo più forte e insistente affinché non vi siano più scuse da parte di nessuno, né più parole sprecate a vanvera.
La lettera, a parere mio, ben esprime le criticità e le aree di intervento urgenti che rappresentano l'unico modo e l'unica via per non solo contrastare, ma anche risolvere, a lungo termine, il problema della violenza contro le donne.
Benché vi sia la necessità di una rivoluzione culturale nell'ambito dell'equilibrio trai sessi da ricercare, l'urgenza attuale è porre rimedio alla assoluta ed evidente incapacità istituzionale dello Stato Italiano di contrastare questo fenomeno, cosa che, peraltro era già stata denunciata parecchio tempo fa, anche dall'ambasciatrice ONU sul tema, che nel 2013 denunciava prassi cancerogene a tutt'oggi irrisolte.
NON E' PIU' TEMPO DI ASPETTARE. E' TEMPO DI GARANTIRE DIRITTI, DIGNITA' E SOPRATTUTTO LA SICUREZZA DI POTER VIVERE COME DI DIRITTO SERENAMENTE LA PROPRIA ESISTENZA E DI GARANTIRLA AI PROPRI FIGLI.
Una legge e una psicologia - materia a cui spesso si fa riferimento per gli operatori istituzionali - che tutelano bugiardi, violenti, maltrattanti, e che in luogo che mettere in sicurezza le vittime, le espongono maggiormente in nome di una bigenitorialità condivisa che però, per parte dell'abusante - che sia esso fisico o psicologico - è fondata sulle bugie e sulle manipolazioni, su continue misure volte al discredito della donna-madre, non sono né leggi né psicologia INTELLIGENTI.
INTELLIGENTE è comprendere le situazioni, entrarci dentro, capirne le dinamiche e tutelare le vittime non i carnefici. Con i carnefici occorrono percorsi di 'recupero' se così possiamo chiamarli, ma NON A SPESE DI UNA RESILIENZA INGIUSTA DA PARTE DELLE VITTIME.
Solo una legge ed operatori CRETINI possono prendere le parti di bulli, mascalzoni e violenti, in luogo di difendere le vittime. Ciò che è avvilente è dovere stare anche qui a discuterne.
Michela Diani, 26 settembre 2017
LETTERA APERTA ALLE ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONE MANDEN, Grazia Biondi presentata per la prima volta all’intergruppo parlamentare sulle questioni di genere, composto da 80 deputate di tutti i gruppi presieduto dalla Presidente della Camera Boldrini
Io come tante sono una sopravvissuta, un numero in una statistica, altre meno fortunate di me non ce l'hanno fatta e non ci sono più, di alcune conosco le madri, che con grande coraggio aiutano altre donne, tra queste Paola Caio madre di Monica de Boit, uccisa a calci e pugni dal suo compagno il 14 ottobre 2005 a Mazzi di Valeggio sul Mincio (Vr), e di Giovanna Ferrari madre di Giulia Galiotto uccisa l’11 febbraio del 2009 dal marito a Sassuolo (Mo). Sono in contatto da anni con altre donne, con le quali abbiamo in comune l'esperienza della violenza, abbiamo compreso che il silenzio uccide le donne e insieme abbiamo creato una rete, ma anche denunciare spesse volte vuol dire firmare la propria condanna a morte. Di queste vicende ne son piene le cronache, e se non muori, vivi nell’inferno dell’indifferenza, senza reale protezione e giustizia da parte dello Stato.
Eh si, perché il nostro è un mondo che pochi realmente conoscono e comprendono, i tanti "addetti ai lavori" incontrati, uomini come donne, con i quali tante di noi hanno avuto modo di relazionarsi nel loro percorso. Magari non è neanche cattiva volontà ma solo impreparazione culturale e mancanza di empatia nel comprendere fino in fondo il dolore che ci attraversa l'anima. In questi anni, per sostenere le donne vittime di maltrattamenti, donne e bambini, siamo arrivate alla conclusione che i punti di partenza sono sempre gli stessi: la necessità di aprirsi, di essere ascoltate, credute, ed aiutate a elaborare la sofferenza e la paura. Tutto ciò si scontra e si disperde con gli interlocutori e le interlocutrici che conoscono il problema per teorie e teoremi, ma spesso non hanno una visione olistica del vissuto o l’empatia necessaria.
Il nostro pensiero, dopo anni di confronto e di ascolto è che si possono scrivere tutte le migliori leggi del mondo, ma finché non sono applicate a cosa servono? Se le persone non sono formate veramente a cosa servono? Fino a quando tutte le operatrici e gli operatori non si caleranno realmente nel problema e non tuteleranno concretamente le donne vittime di maltrattamenti e i loro diritti; fino a quando continueranno a pensare con il portafogli e con la “testa degli uomini”, noi continueremo a morire, mentre le nostre denuncie continueranno ad essere inascoltate e si trasformeranno nella nostra condanna a morte.Le forze di polizia, gli assistenti sociali, i giudici e le cancellerie dei tribunali, i periti, i medici, il personale sanitario, e a volte le operatrici dei centri antiviolenza, sono tutte persone che necessitano di formazione specializzata.
Oggettivamente, quando si chiama il numero nazionale antiviolenza -1522- ti mettono in contatto con centri locali, che spesso riescono a fare ben poco. Talvolta sono inadeguati nei loro interventi come nelle risposte, sia per carenza di mezzi e risorse limitate, sia per effettiva inadeguatezza personale o mancanza di motivazione, o perché creati ad hoc solo per poter gestire fondi pubblici e privati. Ciononostante riconosciamo che in alcuni casi, purtroppo non sempre, c'è davvero il desiderio di dare una mano.
Abbiamo bisogno di tempestività! Il problema spesso è la tempestività degli interventi, dalle forze dell’ordine agli assistenti sociali, alla magistratura. I tempi sono troppo lenti! È fondamentale che ci sia un intervento congiunto e immediato da parte dell'autorità giudiziaria e delle forze dell’ordine, sia per i ricorsi in ambito civile che penale. Che siano emessi ordini di allontanamento o di restrizione in tempi reali, immediati e non solo in casi estremi. Non bisogna mai sottovalutare la violenza perché la tempestività degli interventi salva le donne, le nostre vite, quelle dei nostri cari.
Troppo spesso, se non sempre, sono le donne che devono fuggire da casa, con o senza figli. La vittima “si deve mettere in protezione”, sradicandola dalla sua realtà quotidiana, con uno spreco di risorse immenso e un dolore ancora più grande. Semplicemente una doppia rivittimizzazione. Perché siamo noi che dobbiamo andare via e siamo private della nostra libertà e autonomia, della nostra intimità, identità, sempre in una situazione di isolamento ed emergenza protratta. Perché non è l’autore di violenza a dover essere sottoposto a questi disagi e stravolgimenti totali? Cosa altro serve per essere credute e per far agire le autorità nei tempi necessari?
Le forze dell’ordine quando si relazionano con le donne spesso hanno un atteggiamento dissuasivo, quasi a loro dire “conciliativo” al fine di tutelare l’interesse superiore della famiglia, ma dove c’è violenza e sopruso non ci sono diritti né famiglia. Raramente gli interventi in emergenza che svolgono sono fatti da personale competente e in grado di riconoscere e relazionare correttamente al magistrato di turno, anche in virtù della propria forma mentis, sottovalutando la gravità della situazione e mettendo a repentaglio l’incolumità delle donne e degli eventuali minori presenti, alimentando così il delirio di onnipotenza ed impunità del maltrattante.
Le risposte ricevute nelle aule di Giustizia sono caratterizzate da difficoltà burocratiche, superficialità investigativa, insensibilità e impreparazione specifica nella materia. Le cancellerie talvolta, distrattamente(?) perdono i fascicoli e documenti di valenza probatoria. I giudici non leggono le carte, non ascoltano le donne con l’attenzione necessaria, e soprattutto vi è una lentezza nel predisporre e attuare decisioni che ne tutelino l'incolumità.
Se poi il giudice o almeno un componente del collegio cambia, ciò può accadere più volte nel corso di un singolo processo, si ricomincia da capo, perché viene concessa la possibilità alla controparte di negare il consenso all’utilizzo degli atti pregressi, obbligando la donna a ricominciare il processo da capo. Se a ciò si aggiungono assenze, più o meno giustificate, anche da compiacenti professionisti, il risultato è una dilatamento all’infinito dei processi per procrastinare le sentenze con l’intento di raggiungere la prescrizione e quindi l’impunità del reo.
Ecco allora che inizia un altro calvario per noi donne che abbiamo avuto il coraggio di denunciare. La riposta a questo coraggio è una raffica di denunce da parte degli autori di violenza che strumentalizzano la giustizia e ci trascinano di nuovo nei tribunali per cause pretestuose con l’intento di destabilizzarci e sottometterci di nuovo protraendo la violenza.
Queste considerazioni assumono un valore ancora più agghiacciante se si pensa alle tante di noi che sono state massacrate dai loro mariti o compagni, vuoi perché la scadenza dei termini delle misure cautelari spesso non sono prorogate o non sono sufficientemente tutelanti dell’incolumità della donna, vuoi perché la legislazione attuale non permette l'allontanamento coatto a molti chilometri di distanza del maltrattante o forse perché giudici disattenti hanno sottovalutato il rischio di reiterazione del reato fino alle estreme conseguenze per la donna e non per chi avrebbe dovuto tutelarla. Senza parlare dei casi in cui ci sono i figli.
Figli e familiari troppo spesso sono arma di ricatto, per esercitare un dominio assoluto sulla donna spezzandone la volontà e la libertà. Le donne, che spesso non riconoscono per prime i danni che fa la violenza quando i minori vi assistono, decidono di allontanarsi solo quando la situazione in famiglia diventa ingestibile e pericolosissima. Per esempio quando i figli sono oggetto di violenza fisica e/o sessuale. Se restano è perché vengono ricattate per paura di vedersi portare via i figli, ostaggi della situazione di violenza, o perché senza alternativa economica e socio assistenziale.
Raramente le donne si fidano del sistema sociale, anche perché gli operatori e le operatrici, nei loro comportamenti e nei loro resoconti, troppo spesso esprimono un giudizio- pregiudizio in un contesto di superficialità, sostituendosi al magistrato giudicante e agendo con una mentalità patriarcale maschilista che difende ciecamente ad oltranza il diritto genitoriale del maltrattante reo. E nei tribunali è anche peggio.
Le questioni relative ai figli, di solito gestite dal tribunale dei minori che ha competenze e sensibilità specifiche, sono sempre più di competenza del tribunale ordinario, che non ha le capacità per comprendere la delicatezza e la gravità dei temi e per garantire le opportune tutele e diritti. Accade sovente che i figli vengano pretesi dal maltrattante in affido esclusivo, per poter gestire la casa coniugale concessa al genitore affidatario nel “interesse superiore del minore”. Ed è qui che in questi contesti già traumatizzati tutto si risolve a colpi di perizia, con i mercenari delle CTP, consulenze tecniche di Parte, che dipendono da chi ha maggiori risorse economiche a diposizione. E le CTU, le consulenze tecniche d’ufficio, richieste dal giudice procedente, fornite troppo spesso da incompetenti, che non conoscono il fenomeno della violenza maschile sulle donne, ma conoscono il giudice che conferisce l’incarico. Spesso, nel gioco delle parti, i periti delle CTP sono quelli delle CTU e viceversa.
Quando si denuncia, un avvocato di grido raramente lo scoverete accanto alle vittime, nei tribunali, in gratuito patrocinio. Invece i maltrattanti hanno a disposizione i migliori avvocati, principi del foro, incompatibilmente con lo stato di indigenza reddituale che spesso dichiarano.
Gli avvocati raramente ci spiegano le procedure, cosa ci aspetta, i nostri diritti, ci aggiornano sullo stato di avanzamento del processo, utilizzano un linguaggio a noi comprensibile. Ci catapultano allo sbaraglio, senza rete di salvataggio, in una macchina perversa chiamata “giustizia”.
I maltrattanti strumentalizzano la giustizia e i suoi tempi. Si avvalgono di numerosi testimoni a loro “compiacenti”. Fin quando non si istruisce il processo i potenziali “testimoni” iniziano a dileguarsi. Più il tempo passa e più la loro memoria vacilla, come anche la loro coscienza. Ed ecco che i carnefici si moltiplicano. L'omertà, come le false deposizioni dilagano, infangando e destabilizzando la donna, preferendo sacrificare la vittima, di nuovo. "Se l'é voluta” o “se l'è cercata”. Tutto ciò con una scarsa considerazione del sistema giudiziario, tanto da non temerlo, al punto di sfidarlo ...mentendo. Per questo abbiamo imparato che “chi non impedisce un’ ingiustizia ne è complice”.
Infine, l’irrisorietà della pena e la mancanza di certezza della stessa, spaventano le donne e le inducono a riflettere che forse non conviene denunciare. Se in pochi anni il maltrattante sarà di nuovo fuori non si ha nemmeno il tempo di ricostruirsi una nuova esistenza. E allora perché rischiare ribellandosi ed esponendosi con la propria vita e quella dei propri figli?
Ed ecco che non crediamo più, non esiste giustizia, non vi è comprensione né compassione. Noi che alla fine siamo costrette a rimanere o tornare dal nostro aguzzino piuttosto che trovarci davanti a degli inquisitori. Perché c’è sempre qualcuno o qualcuna che dubita del nostro equilibrio e della nostra forza. Come se subire maltrattamenti fosse una prerogativa delle donne, stupide e senza personalità.
In caso di violenza le disfunzioni di un sistema pubblico e l’agire delinquenziale e crudele del maltrattante si sommano sulla pelle delle donne, ed agevolano lo sperpero di denaro pubblico per non parlare dell’immeritata sofferenza umana. La violenza viene quindi fatta dallo Stato ma anche allo Stato da parte dei maltrattanti, facendo pagare tutto il sistema perché non sono condannati ma paradossalmente protetti a spese della comunità.
Le donne che subiscono violenza, spesso nella relazione di coppia sono economicamente dipendenti e non dispongono di mezzi sufficienti per soddisfare i bisogni primari per sé e i propri figli. La violenza economica è la più nascosta, la meno percepita anche dalle stesse vittime. Le donne si trovano coinvolte in situazioni di indebitamento, utilizzate come prestanome di società costituite dai compagni, segnalate in CRIF o protestate, indebitate a loro insaputa con il fisco ed Equitalia. Ciò penalizza le donne nella possibilità di intraprendere nuove attività o nell’inserimento lavorativo in quanto ritenute inaffidabili perché “cattive pagatrici”. Tutto ciò accade in Italia, dove l’occupazione femminile è solo al 46,2% e la gran parte delle donne lavoratrici si trovano in condizioni precarie e sono sottopagate contribuendo a relegarle in una posizione economicamente svantaggiata rispetto agli uomini, con un aggravio ulteriore in presenza di figli.
Le donne senza disponibilità finanziarie minime, non si possono curare e per avere una risposta a problemi di salute ricorrono molto più frequentemente ai pronto soccorsi e ai servizi di emergenza. Le donne si ammalano dopo anni di violenza. L’aumentato stress diminuisce le difese immunitarie favorendo patologie anche letali come il cancro. Chi gestisce la salute, Ministero e regioni, non prevedono esenzioni specifiche – ticket - alla spesa sanitaria in caso di traumi psico- fisici conseguenti alla violenza, se non in rarissimi casi, così che la donna si trova a dover pagare prestazioni ricevute in virtù delle lesioni subite, anche gravi e costose. Le vittime di violenza perdono così anche il “diritto alla salute” garantito dalla Costituzione.
Fin qui una sommaria esposizione delle criticità; ora è il momento di formulare proposte fattibili e non utopistiche per ridurre se non eliminare la piaga del femminicidio e della violenza maschile sulle donne. Abbiamo bisogno urgente di una reale e corretta applicazione della legislazione esistente . Si deve evitare la frammentazione del quadro giuridico. La convenzione di Istanbul dovrebbe essere il punto di partenza e non di arrivo, il riferimento per l’agire di tutte le articolazioni dello Stato! Abbiamo bisogno di leggi speciali che riconoscano la violenza economica e permettano di riabilitare chi ne è vittima, rinegoziare i debiti pregressi acquisiti in condizioni di inconsapevolezza o in maniera coercitiva. Necessitiamo di leggi e politiche speciali pensionistiche per donne vittime di violenza che non hanno maturato alcun contributo previdenziale, coloro che non hanno usufruito della previdenza necessaria, coloro che vi hanno rinunciato perché costrette ad abbandonare il lavoro o perché si sono trovate ad accettare lavori in nero.
Per promuovere il cambiamento culturale è necessario affrontare il fenomeno della violenza di genere come violazione dei diritti umani, diritti fondamentali della persona, sia a livello istituzionale che nella pubblica opinione. Occorre quindi sensibilizzare l'opinione pubblica in maniera corretta sul problema, non con i soliti servizi ad effetto in occasione dei delitti più gravi nei telegiornali e nei talk-show, che servono ad aumentare vendite e share che sollecitano fantasie morbose e pornografiche nel pubblico. Serve una vera campagna informativa e formativa incisiva e capillare, un’educazione al rispetto e alle relazioni in grado di gestire conflitti e affettività, in tutte le scuole di ogni ordine e grado, nelle università, ed attraverso i media e i social. Abbiamo bisogno di una seria formazione capillare su tutti gli operatori del pubblico e anche del privato, sia per servizi specializzati che generici. I risultati della formazione dovrebbero essere monitorati nel tempo sul personale dedicato, l’impatto dovrebbe essere rilevato sulla base di una diminuzione statistica del fenomeno della violenza sul territorio nazionale e nel cambiamento di linguaggio nei mass media e nei social nell’esporre gli episodi di violenza. La nostra esperienza ci dimostra che tanto più alta è la specializzazione dei professionisti operatori e operatrici, tanto maggiore è la tutela effettiva della persona e dei diritti lesi. Solo dove si incrociano consapevolezza, specializzazione e lavoro di rete tra donne, che già conoscono la violenza e l'hanno superata, l’attività di tutela, quella investigativa e quella giudiziaria è più efficace e la qualità della risposta globale migliora. Serve personale dedicato in ogni settore di intervento rispetto alla violenza maschile, es. nella sanità nei servizi sociali, nelle scuole, tra le forze dell’ordine, tra gli avvocati e nella magistratura. Servono dei luoghi sicuri, dove noi donne possiamo ricominciare a vivere. Serve un lavoro che ci restituisca la speranza di ricominciare dignitosamente. Bisogna garantire alle donne che hanno subito violenza la corretta informazione sui loro diritti e sui percorsi processuali che le riguardano in un modo a loro comprensibile. Serve che siano protette durante la fase delle indagini e quella del procedimento penale. Le donne devono poter prendere parte al procedimento se lo desiderano e devono essere supportate durante il processo, insieme ai familiari. Si rendono necessarie disposizioni affinché le vittime vulnerabili come minori, vittime di stupro o persone disabili siano identificate e siano adeguatamente tutelate. Le associazioni devono potersi costituire sempre parte civile nei processi, e non vedersi negate tale diritto, come anche devono poter interagire con le istituzioni. Occorrono investimenti, risorse umane e progettualità capaci di farsi carico della realtà della condizione delle donne in Italia e degli ostacoli materiali che le vittime incontrano quando vogliono uscire dalla violenza, offrendo loro supporto e protezione. Non abbiamo bisogno di assistenzialismo, abbiamo bisogno di riprenderci la nostra vita, la nostra individualità, ricominciare da noi, dalle nostre capacità lavorative, quelle che potrebbero condurci alla indipendenza economica. NOI NON SIAMO VITTIME ALL’INFINITO.
I maltrattanti devono essere allontanati immediatamente dal momento dell’indagine o dall’intervento di polizia giudiziaria dal domicilio in modo coatto e le donne e i loro figli devono poter continuare a vivere nella loro abitazione garantendo loro una tutela quotidiana e non distratta. Le azioni giudiziarie di natura civile e penale non devono proseguire su binari differenti ma paralleli, interagendo al bisogno tra loro. Abbiamo bisogno di tempi brevi da attuare per le indagini delle forze dell’ordine e per istruire le udienze, che dovrebbero tenersi in percorsi ad hoc, immediati, che non superino l’anno solare per giungere a sentenza. Basta con anni di processo e rivittimizzazione! In ambito giudiziario dovrebbero essere istituiti degli albo professionali per avvocati, periti, psicologi, assistenti sociali e personale giudiziario che dimostrino di aver seguito corsi di formazione e relativi aggiornamenti sul fenomeno della violenza. Abbiamo bisogno di tribunali con sezioni specializzate dedicate solo ed esclusivamente a questioni inerenti la violenza sulle donne e sui minori con professionisti specializzati, formati e continuamente aggiornati. Si dovrebbero favorire all'interno delle Procure dei veri e propri pool di magistrati specializzati che agiscano in modo rapido ed efficace per tutelare le vittime, soprattutto evitare che queste donne, già così tanto provate, subiscano ulteriori vittimizzazioni e violenze.
I tribunali dei minori riteniamo non vadano smantellati e accorpati agli ordinari.
Il gratuito patrocinio dovrebbe essere esteso e garantito in tempi congrui non solo in ambito penale ma anche nel processo civile. In materia di privacy nei tribunali, le cause dove le donne sono state vittime di abusi e maltrattamenti non possono essere discusse e gestite in un aula affollata di gente, in mezzo alla confusione ed a professionisti in cerca dei loro fascicoli. Una situazione a dir poco riprovevole e squalificante per quella che dovrebbe essere la tutela ed il rispetto di chi esce dall'orrore della violenza. Abbiamo bisogno della certezza della pena e di sanzioni proporzionate e dissuasive, reali ed efficaci. Basta a patteggiamento, rito abbreviato e prescrizione in tutti i casi di violenza maschile sulle donne. Che siano puniti pecuniariamente anche i falsi testimoni e gli inadempienti alle proprie funzioni. Si dovrebbero congelare i beni del maltrattante, come si fa con i mafiosi, per evitare operazioni di distrazione del patrimonio, avvalendosi di presta nomi, per non risarcire la vittima a sentenza. Infine, sarebbe utile istituire una figura istituzionale indipendente, che conosca il territorio e le sue varie realtà, capace di interloquire e supportare le donne che subiscono violenza, le associazioni e i servizi che operano a loro tutela e sostegno per uscirne. Un Garante Nazionale per le donne che subiscono violenza maschile, con referenti regionali, (simile alla figura del garante per l’infanzia), per agire e interagire con le istituzioni a livello nazionale e regionale, favorendo l’applicazione della Convenzione di Istanbul. Al fine di dialogare con il Parlamento, il Governo con i suoi vari ministeri e i governi regionali, con la magistratura e i diversi tribunali territoriali; con l’intento di sostenere lo Stato ad agire con la diligenza che gli compete e che ci è dovuta. Un Garante nazionale contro la violenza maschile sulle donne che intervenga quando e dove necessario, a tutela della vittime in caso di ritardi, rinvii o procedure incompatibili in vari settori o gravemente nocive della tutela fisica e psicologica della donna e dei suoi familiari. Le nostre rimostranze e le richieste contenute in questa lettera alle Istituzioni, sono un messaggio che proviene dall’esperienza di centinaia di donne che in Italia hanno subito o ancora subiscono diverse forme di violenza. Questa voce si leva nella speranza che le istituzioni impegnate e in generale le persone che vivono ed agiscono in maniera ancora civile, donne e uomini, insorgano per favorire una rivoluzione delle coscienze, per l’affermazione di una nuova cultura a tutela dei diritti umani delle donne, perché solo quando tutte e tutti avremo la capacità di indignarci e di tutelare chi viene lesa nella dignità, avremo vinto!
La Presidente Grazia Biondi per l’Associazione Manden